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Guide Ambientali Escursionistiche

Planetary Boundaries

“Confini planetari”.. in che senso?

In questa breve trattazione vi vorrei parlare dei limiti del nostro pianeta, e non mi riferisco a quelli spaziali.
“Limiti” è un’altra traduzione del termine inglese boundaries, arriva dal latino “limes” e si riferisce a qualsiasi contrassegno (solco, steccato, etc..) che ha la funzione di determinare il passaggio tra due terreni diversi; ma un limite è anche l’indicazione di un livello, di una soglia al disopra o al disotto della quale si verifica un fenomeno: “limite delle nevi permanenti”, “limite della vegetazione”, etc…

Come interpretare questi limiti planetari quindi?
Viviamo in una società vittima di una sorta di “dissonanza cognitiva” [1] in cui razionalmente e scientificamente sappiamo che non possiamo crescere e consumare ai livelli attuali, ma continuiamo a farlo, premendo addirittura l’acceleratore come se nulla fosse.
Un team internazionale di ricercatori riunito sotto l’egida dello “Stockholm Resilience Center” ha preso di petto la questione cercando di fotografare la situazione da un punto di vista il più ampio possibile, raccogliendo le più aggiornate pubblicazioni scientifiche nei vari settori di ricerca sull’impatto dell’essere umano sull’ambiente.
L’obiettivo è stato, ed è tuttora, quello di tracciare una mappa con uno “spazio sicuro” in cui l’umanità può continuare ad agire e prosperare senza innescare cambiamenti irreversibili e radicali che comprometterebbero la vita come la conosciamo.

Il primo risultato di questo lavoro è stato pubblicato nel 2009, poi revisionato nel 2015 [2] e diventato famoso con la rappresentazione qui sotto, un cosiddetto “diagramma radar” con 9 settori critici di impatto delle attività umane sul sistema Terra:

A che punto siamo?

Nonostante rimanga un certo grado di incertezza e alcuni settori siano ancora da valutare (Inquinamento chimico, perdita di biodiversità e quantità di aerosol nell’atmosfera), già a colpo d’occhio, la situazione attuale non è rassicurante: in 4 settori è stata superata la soglia di sicurezza, con 2 settori che l’hanno oltrepassata in maniera pesante (Estinzioni e cicli biogeochimici).
Alcune tra queste aree sono già abbastanza note (cambiamento climatico, consumo di acqua, buco nello strato di ozono, perdita biodiversità), altre come il consumo di suolo, l’acidificazione degli oceani probabilmente faranno parlare di sé nel prossimo futuro.

In questa occasione proverei ad approfondire i due settori dove l’abbiamo fatta fuori dal vaso. 
Anzi, guardando all’integrità della biosfera e ai cicli biogeochimici, più che fuori dal vaso, abbiamo proprio pisciato in giro per casa.
Cerchiamo di capire un po’ di più di cosa stiamo parlando e perché è importante per le nostre vite

 

Perdita di integrità della biosfera (perdita di biodiversità ed estinzioni)

Si fa un gran parlare di biodiversità, spesso in termini vaghi o dando per scontato il significato della parola. Proviamo a fare un po’ di chiarezza, la biodiversità rappresenta un indice della ricchezza e varietà di vita sulla terra: piante, animali, funghi, licheni, batteri, ma anche i geni che essi contengono, le differenze tra individui della stessa specie e i complessi ecosistemi che essi costituiscono.
Questa varietà include anche la diversità intesa come abbondanza, distribuzione e interazione tra le diverse componenti, con i rapporti di convivenza tra tutti gli esseri viventi (la biosfera) e l’ambiente inorganico con cui essa scambia materia ed energia.

La biodiversità è come un serbatoio di possibilità.

Se l’equilibrio di un sistema viene perturbato, il grado di biodiversità in esso presente si potrà tradurre in una capacità di rispondere più o meno efficacemente e velocemente nello smorzare questa perturbazione e ricreare un nuovo equilibrio.
Proviamo con una metafora: un gruppo affiatato composto da persone di cultura, estrazione sociale e formazione molto diverse tra di loro sarà molto più efficace a trovare soluzioni ad un problema nuovo e imprevisto rispetto ad un gruppo completamente omogeneo, dove tutti ragionano allo stesso modo.

Probabilmente, parlando di biodiversità vi saranno venute in mente le api: questo esempio è spesso adoperato perché l’agricoltura intensiva, le monocolture (distese immense di coltivazioni di una singola specie alimentare) e l’uso di pesticidi, l’inquinamento e i cambiamenti climatici, stanno mettendo in pericolo questa e moltissime altre specie di insetti a cui dobbiamo l’impollinazione della stragrande maggioranza delle piante alla base della nostra alimentazione.

Il peggioramento delle condizioni su cui si fonda un ecosistema, grande o piccolo che sia, comporta effetti a cascata al suo interno e all’esterno, con conseguenze spesso imprevedibili e catastrofiche, soprattutto se le variazioni avvengono in tempi molto brevi rispetto alla velocità di possibile adattamento.

I cambiamenti sugli ecosistemi dovuti alle attività umane sono stati più rapidi negli ultimi 50 anni che in tutti i circa 160 000 anni dalla comparsa della nostra specie: la domanda di cibo, acqua e risorse naturali dalla seconda metà del novecento in poi ha causato ingenti danni alla biodiversità, anche a forte discapito dei cosiddetti “servizi ecosistemici” [4], i quali contribuiscono al benessere dell’umanità per un valore più che doppio rispetto al PIL globale [5], con quest’ultimo largamente costruito su di essi.

Questi cambiamenti non sembrano sul punto di rallentare, tuttaltro.

Ad eccezione della perdita di biodiversità, attualmente difficile da quantificare con gli strumenti teorici e tecnologici a disposizione, è ormai pacifico che l’umanità (e in particolare le società occidentali di mercato) sia la causa della “sesta estinzione di massa” nella storia del pianeta Terra, con un ritmo di estinzioni di specie viventi di circa 1000 volte superiore a quello naturale [6].

I flussi biogeochimici

Indicati con questo termine altisonante, i flussi biogeochimici rappresentano il quotidiano ciclo tra ambiente fisico e biosfera di alcune sostanze molto importanti per la vita sulla Terra, in questo caso l’azoto N (dal latino Nitrogenum) e il fosforo P.
L’azoto, nella sua forma molecolare N2 molto stabile, è il principale componente dell’aria che respiriamo (79%) ed è un ingrediente fondamentale per la crescita delle piante (e di conseguenza anche per tutti gli animali, umani e non), le quali ne hanno bisogno in una forma cosiddetta “biodisponibile”, ovvero all’interno di composti che esse siano in grado di assimilare. Un po’ come noi non possiamo mangiarci pezzi di ferro per sopperire al nostro fabbisogno, ma ne abbiamo bisogno in una forma che riusciamo a digerire e ad assorbire.
Per fissare l’azoto atmosferico in composti organici, nella storia della Terra si è sviluppata una simbiosi tra alcuni batteri e piante, tra le più famose citiamo le leguminose, che sono in grado di trasformare lo stabile azoto atmosferico in molecole più reattive e biodisponibili.

Al momento, diverse attività umane (industria, agricoltura, combustione di idrocarburi e biomasse) convertono più azoto atmosferico in forme reattive rispetto a tutti i processi “naturali” messi insieme. Una buona parte di questo nuovo azoto reattivo è riemesso in atmosfera sotto varie forme e non viene direttamente adoperato dalle colture (la Lombardia è attualmente sotto procedura di infrazione per inquinamento atmosferico da nitrati, ovvero composti dell’azoto, tra i quali l’ammoniaca [7]) e quando piove, questi composti inquinano i corsi d’acqua, le zone costiere e le falde. Discorso analogo si può fare per il fosforo, anch’esso molto utilizzato nei fertilizzanti e accumulato nei sistemi acquatici.

Una porzione importante di queste sostanze finisce infine nei mari e oceani, creando situazioni di squilibrio: esplosioni di popolazioni di alcune specie (ad esempio alghe o fitoplancton grazie all’eccesso di nutrienti) e la moria di altre per carenza di ossigeno, di luce etc…
Se a questa situazione aggiungiamo l’acidificazione e riscaldamento delle acque, la pesca industriale e l’inquinamento, si ottiene un’ottima ricetta per la devastazione della vita acquatica.

Come ritornare nello "spazio sicuro"?

La società in cui viviamo sta consumando risorse e alterando gli equilibri del pianeta ad un ritmo e intensità senza precedenti [8], con conseguenze sia su scala locale che globale.
“Planetary Boundaries”, lungi dall’essere un lavoro di ricerca definitivo, costituisce un utile spunto di riflessione per le istituzioni, le imprese e tutti noi cittadini, mostrando dove e come le nostre azioni e scelte influenzano il mondo intorno a noi.
Ricordiamoci anche che cambiare il nostro modello di produzione e consumo non è un’azione altruista nei confronti del pianeta: noi dipendiamo dall’ambiente che ci circonda e rispettarne i limiti è necessario prima di tutto per la nostra sopravvivenza e prosperità.
La comunità scientifica globale (e non singole, discutibili voci) lo ripete da decenni ormai che con questo modello stiamo rendendo il pianeta un posto più ostile alla vita umana e l’idea di poter consegnare alle future generazioni un mondo migliore è nulla di più che ingenuità o peggio ipocrisia, già smentita dalla realtà, visto che gli effetti di questi cambiamenti irreversibili sono già sotto i nostri occhi.

Tornare nello spazio sicuro è però possibile, limitando i danni ed evitando di peggiorare la situazione, ma il Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres ha sintetizzato questa sfida con una formula tanto efficace quanto impietosa: “We have a choice: collective action or collective suicide. It is in our hands”.
La scelta sta a noi.

Stefano Caccini

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